2 marzo 2006, via Garibaldi - Russia
È il mio compleanno e svolgo Servizio Civile al Centro Studi Sereno Regis, un posto sconosciuto che si affaccia sulla via più camminata di Torino e che sventola in faccia ai passanti due coloratissime bandiere della Pace e una bianca del Movimento Non-violento, che la pace non la urla solo ma la costruisce giorno per giorno.
Compio 21 anni e sono la più piccola al CSSR. Nella mia aria c’è calore e una lieve sensazione di stress che serve a conciliare lavoro, esami, famiglia che trasloca, amori vecchi che ti salutano e amori nuovi che nascono, idee, progetti.
È quasi ora di pranzo, stiamo finendo di lavorare e tra poco ci metteremo a tavola, come tutti i giorni. Ciò che rende questo posto caldo come una famiglia è la cucina: cucinare e mangiare insieme crea legami come di sangue, legami di stomaco e lo stomaco è vicinissimo al cuore. Secondo me il fuoco ha rivoluzionato la storia dell’uomo non tanto perché riscaldava i corpi e teneva lontani gli animali, ma perché costringeva le persone a mangiare strette, riscaldando i lembi di carne sulla stessa fiamma, masticando vicini l’uno al ritmo delle mascelle dell’altro.
Dalla finestra entra una musica, una musica simpatica, viva, ricca. Ci affacciamo. Un uomo sulla cinquantina con la pelle chiara e gli occhi azzurri, vestito da cow-boy, suona almeno cinque strumenti contemporaneamente e intanto fa ballare Antonio, la sua marionetta, vestita come lui. Scendiamo e lo ascoltiamo. È bella l’arte di strada, non chiede nulla e tutto offre e intanto fa sorridere Torino, che diventa un po’ meno sabauda e un po’ più parigina, in questo 2006 di olimpiadi che la vorrebbe internazionale e invece continua a macchiarsi di cantilene al sapore di bagna cauda o come accidenti si scriverà.
È bello il nostro artista di strada e così, senza un perché, lo invitiamo a pranzo. È russo, ma capisce abbastanza l’italiano. Mi fa gli auguri, in italiano e in russo. Mangia e racconta, riservato e a suo agio. Ha una figlia della mia età, Olga –come la moglie di Cechov-, che vive negli Stati Uniti e che non vede da dieci anni.
Per sei mesi all’anno lavora al teatro di San Pietroburgo, tra marionette e spettacoli, e gli altri mesi va in giro per l’Europa, con Antonio e la sua musica.
- Sei attore?
- No, lui è attore- e indica Antonio
- È vestito come te
- Lui dice che sono io che mi vesto sempre come lui
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- Sei felice?
- A volte sono felice, a volte sono triste
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- Mi piacerebbe vedere
- Vieni a trovarmi a Pietroburgo, a giugno, quando sarò di nuovo lì.
Un indirizzo mail, un contatto per continuare a sentirsi e forse a incontrarsi, per caso o per magia.
3 gennaio 2007, portici di piazza Castello – Senegal
Capodanno ad Assisi. Un bel Capodanno, colori, aria nuova, amici ritrovati dopo qualche mese di lontananza e altri scoperti nel paese di Francesco, speranza e desiderio che l’anno nuovo sia nuovo davvero. Che qualcosa o qualcuno renda nuove tutte le cose.
E poi il ritorno. Il treno fa troppo pensare o troppo sognare, dipende. In ogni caso è pericoloso, sia che rimugini e perdi la tua realtà aggrovigliandoti in quella che ti mostra la mente, sia che ti trasferisci in un mondo sorridente o semplicemente più sano di quello con cui normalmente hai a che fare. Per me era la seconda opzione. Poi il ritorno, brusco come sempre.
Anche quest’anno, il mondo non è cambiato la notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. Anche quest’anno, cediamo all’ipocrisia di augurarci buon anno nuovo, mentre dovremmo augurarci buon anno vecchio. I giorni e i minuti sono vecchi ancora, siamo vecchi noi. Ancora non è avvenuta la metamorfosi. L’uomo nuovo ancora non è nato dentro di noi.
Il 3 gennaio torno da non so quale commissione e cammino senza troppa fretta per Torino ancora natalizia. Mi piacciono le vetrine, soprattutto quelle di libri. Ma più ancora mi piacciono i libri di colori, suoni, sapori, odori e storie africane. Ricette africane, speziate, brucianti come la vita: il cibo è prezioso, devi sentirlo quando ti passa sul palato e poi giù nell’esofago, devi benedire il bruciore alla lingua e la bocca che scotta. Favole africane, vere e sanguigne, senza false morali e sdolcinati lieti fine, dove ogni cosa e ogni animale è dotato di spirito e portatore di sapienza. Fiabe africane, principesse esotiche e belle, storie di coraggio, avventura, dolcezza. E poi romanzi e racconti non più figli della tradizione ma dei viaggi, dei distacchi, delle difficoltà, dell’arrivo e magari del successo di chi lascia l’africa e poi a volte vi fa ritorno, come un guerriero vittorioso.
Mi piace comprare questi libri da un ragazzo senegalese che li vende come ambulante regolare. Ha un sorriso luminoso e mi sa consigliare bene. Insieme parliamo di quelli che ho letto, di ciò che mi ha commosso e di ciò che mi ha divertito.
A volte però io non posso comprare e lui vuole comunque vendere, è un tira-e-molla che si risolve solo se mi allontano augurandogli buona fortuna.
Eccolo, mi ha visto e già sorride.
- Ciao bellissima
- Ciao. Guarda, oggi, niente, magari domani, la prossima volta.
Ma lui dice di no e mi fa fermare
- Voglio solo farti gli auguri
E sorride. Mi dà la mano, e due baci. E mi dice buon anno. Che bello il tuo buon anno. Allora penso che forse è già un anno nuovo, se tu hai voglia di fermarmi solo per augurarmelo. Che sia un anno buono davvero, di quelli che alla fine non butti via con un boccale di birra ma custodisci dentro le pagine di un diario.
23 ottobre 2009, via Garibaldi – Romania
Giornata scura, da dimenticare. Di quelle che non ci dovrebbero essere sul calendario. Di quelle che la sera prima pensi “che bello sarebbe se mi addormentassi ora e mi svegliassi dopodomani”. Perché è così difficile cancellare un giorno? Se già sai che quel giorno dovrai passare dove non vuoi, dovrai sperimentare la generosità non ricambiata, la gioia degli altri indifferente alla tua sofferenza, perché non puoi cancellarlo?
Ci avevo pensato. Fossi ricchissima -mi ero detta- farei un bel gioco di fusi orari, mi sposterei di volo in volo facendo la fortuna di qualche compagnia aerea in modo da prolungare il più a lungo la mia permanenza nel 22 ottobre e poi via in senso contrario a rincorrere il 24. Certo, il fuso orario non avrebbe potuto impedirmi di passare almeno per un po’ in questo terribile 23, ma a quel punto sarei stata io completamente fusa e drogata da cambi di ora, posti, cieli, check-in, cinture di sicurezza, partenze, atterraggi, turbolenze e non me ne sarei accorta più di tanto.
Ma non sono ricchissima, e quindi è andato tutto secondo copione. Ovviamente speravo ci fosse un colpo di scena, ma non c’è stato. Neanche una frase piccolissima, una parola, uno spiraglio di apertura.
Ci sono giorni in cui le fate madrine prendono ferie e la mia il 23 ottobre è andata alle terme. O a Gardaland. Più probabile alle terme, però. Le montagne russe le fa già tutti giorni per stare dietro a me, credo che avesse proprio bisogno di rilassarsi tra un bagno turco e una sauna in cui far evaporare tutte le tossine, le mie, quelle che mi soffia via tutti i giorni.
Per fortuna tra poche ore il 23 ottobre sarà finito, penso mentre cavalco la mia bicicletta. O forse non penso proprio. Si sa che il vento sulla bici asciuga le lacrime come una carezza, ma solo a patto di non pensare. O meglio di stare al gioco e pensare solo al movimento delle gambe, ai piedi sui pedali, alla leggera pressione delle mani sul manubrio e alla strada che si spalanca davanti.
Statuario, in messo alla via pedonale, vestito di giallo e di verde, un naso rosso intreccia palloncini per bambini e coppiette. Un clown, un vero clown. Non uno che gioca a fare il clown per un arco definito di tempo, né uno che pretende di trasmettere l’essenza della vita nei suoi fiori e cagnolini colorati. No, uno che semplicemente sta lì, sorride, si offre, strizza l’occhio al bimbo che cammina per mano a una mamma frettolosa e guarda attento se passano vigili avidi di permessi. Nulla lo protegge e nulla lo affligge. È libero dentro e regala la sua libertà a chi cammina schiavo di negozi, serate, tacchi, borsette, firme e agende.
Mi fermo, non voglio un palloncino, vorrei che mi spiegasse come si fanno i colombi che tubano. O forse voglio solo parlargli.
- Sai che è segreto, non si dice
Sento l’accento e mi sorride il cuore.
- Sei rumeno?
È rumeno, e siamo già quasi amici. Viene da Varad, ha quattro figli e ogni tanto gira con i suoi colori. Io gli parlo di Sighet, dei Carpazi e di Cluj. Mi chiede se sono stata in altre città del suo Paese e rispondo di no, purtroppo. Ha gli occhi luminosi quando parla della sua terra e io sorrido nei ricordi condivisi. Ma forse lui ha sempre gli occhi luminosi, perché chi sceglie il rischio di un’arte vissuta nella gratuità deve imparare a vedere alla sola luce delle proprie iridi.
Gli insegno a fare l’ombrello con tre palloncini. Basta spiegarglielo a parole, senza sprecare fiato e plastica. Adesso siamo amici.
Lui gonfia un palloncino giallo e, passaggio dopo passaggio, mi prepara molto lentamente i colombi innamorati. Ci siamo addomesticati e mi regala il suo segreto. Mi servirà per alleggerire i prossimi 23 ottobre, miei e degli altri. Oggi mi colora il cielo.
Capisco che è già il momento di salutarci, lui deve lavorare. Adesso non ho lacrime da far asciugare al vento di bici e salgo sopra il sellino leggera e fresca.
Drum bun, pagliaccio Tin-tin.
Ecco il mio racconto, tre incontri di strada e tra strada, reali.
RispondiEliminaMi sono un po' fatta prendere e forse sono stata un po'lunga...