lunedì 22 febbraio 2010
Lettera a una persona attesa
ti scrivo anche se mi ero ripromessa di non farlo, perchè ti aspetto da tempo, forse da tanto tempo e con gli anni il mio modo di attenderti è cambiato, forse per un certo periodo ho creduto che il fatto che stessi con me tutto il giorno non mi avrebbe mai portata ad attenderti, eppure ti aspetto.
Ti aspetto come una donna incinta, che nel tempo si vede trasformata e dopo la lunga attesa e un doloroso passaggio può vivere di una gioia nuova, inimmaginabile.
Io credo che un giorno questo avverrà, questo incontro ci sarà, saremo donne nuove entrambe, questa attesa forse ci avrà fatto bene.
In cima alla lettera ho scritto solo una emme, ora di più non riesco a scrivere, perchè leggere la parola per intero mi fa piangere, mi affatica, mette in moto un mucchio di ricordi passati, di quando io ero piccola, e quelle mie esuberanze erano parte di quella che oggi si fa attesa.
Ti aspetto, e questo tempo non sarà infruttuoso, ognuna di noi avrà la sua vita da percorrere, nuova da costruire, e forse poi ci potremmo di nuovo incontrare.
reby
lunedì 1 febbraio 2010
lettera
ho il maso incollato alla finestra, fuori nevica, ma non è la neve, che a poco a poco sta coprendo tutto a catturare la mia attenzione. Da qualche tempo fisso un punto preciso, dove la strada finisce, inghiottita, sembra, dalla casa vicina. Fisso quel punto nella speranza di vederti comparire, così all’improvviso, come tante volte ho sognato.
Era tempo che non guardavo dalla finestra: l’attesa del tuo arrivo viene, a volte, celata dalle 1000 cose che ho da fare, dal caos di cui mi circondo tutti i giorni. Ma poi… basta così poco: due mani allacciate, braccia strette al collo, un commento, per fare ritornare prepotente il desiderio di vederti arrivare.
Tante volte ho sognato quel momento che quasi lo temo, temo la felicità che porterà il tuo arrivo. Mi sono spesso chiesta il motivo del tuo ritardo: hai perso la strada, qualcuno ti trattiene, non sai che è da me che devi venire.., nel frattempo io mi preparo: riempio l’attesa di esperienze, incontri, affetti, fatiche per prepararmi ad accoglierti.
Intanto la neve ha coperto tutto col suo manto bianco e io ho il naso incollato alla finestra e continuo a fissare un punto preciso: dove la strada finisce, inghiottita, sembra, dalla casa vicina.
mercoledì 27 gennaio 2010
Timisoara, 19 dicembre 1989
Timisoara, 19 dicembre 1989
Drag Vasile,
ieri sera ero emozionata all’idea di scriverti e non vedevo l’ora che fosse giorno per poterlo fare. Volevo raccontarti tante cose e volevo chiederti tanto di te, ma adesso è come se tutto questo non avesse importanza.
Ieri fremevo all’idea di chiederti se il lavoro ti stanca tanto, se sei riuscito a mettere da parte i soldi per iscriverti all’università di Cluj, se ti ricordi ancora della promessa che mi hai fatto, di portarmi al mare per vedere se davvero il sole rosso rosso sorge sull’acqua ancora scura e se è meraviglioso come dicono. Volevo domandarti se Suzanna e Stelluzza hanno imparato a leggere e a scrivere, se i tuoi amici abitano ancora dalle tue parti o se si sono trasferiti più a sud, se quest’autunno sei andato nei boschi a cercare funghi e se d’estate hai fatto il bagno nel fiume, se avete appeso agli alberi le pentole contro gli spiriti nonostante il divieto di ogni credenza, se i tuoi genitori stanno bene, se tuo fratello continua a litigare con tuo padre o se invece si è sposato, se tu -anche se mi sembra impossibile e mi dispiacerebbe- ti sei fidanzato con una ragazza del tuo paese, se… Quanti se e quante domande!!!
Mentre sarei io a doverti raccontare la novità che fino a ieri mi scombussolava tutta e mi sembrava la più grande notizia del mondo: Maruka si sposa!!! Ti ricordi Januz, che ci portava sempre i cioccolatini? Ha chiesto a mia sorella di sposarlo e ovviamente lei è stata felicissima. Papà è contento che lei si sistemi, ma la mamma è un po’ triste, dice che non è tempo di matrimoni questo e che porta male sposarsi alla veloce, senza il vestito bello e con i capelli legati come una zingara. Sai, la famiglia di mamma è ungherese e lei è abituata a cerimonie lunghe e romantiche, ma non si rende conto che la sua epoca è passata e che ormai sono cambiate tante cose.
Ma, ecco, vedi, tutto questo, persino il matrimonio di Maruka, mi sembra poco importante ora. Ci sono altre novità che voglio raccontarti, e mi trema la mano nello scrivere. Oh, se tu fossi qui a vedere cosa sta accadendo! Sento che non sono in grado di renderti l’idea di quello che succede, ma voglio provarci lo stesso.
Tutta la città è in subbuglio, sembra che il mondo intero stia cambiando! Qualcuno dice che questa è la rivoluzione. Ma la rivoluzione non era quella di settant’anni fa? Quella che avrebbe dovuto portare uguaglianza e benessere, e che invece ci ha riempiti di divieti e paure? Di polizia e controlli? Non lo so, ma sembra una guerra.
Chissà se tu, nella campagna del Maramuresc, hai sentito qualcosa! No, non credo che le notizie arrivino da te. Cercherò di raccontarti con ordine: il pastore László Tőkés -te lo ricordi?- ha osato criticare il regime ed è stato costretto a rinunciare alla tonaca ed espulso dalla città. Ma lui non è voluto andare via e i suoi amici lo hanno difeso. Persino il sindaco ha deciso di stare dalla sua parte e sono scesi in piazza.
Non possiamo uscire, papà non vuole e io stessa ho paura. Ma quanto vorrei non essere così bloccata, da me stessa e dai loro ricatti! Se tu fossi qui …non lo so… sento che avrei più coraggio. Ho il fuoco nel cuore, ma devo ingoiarlo come si butta giù bicchiere di palinka, aspro e forte, perché non posso urlare e unirmi alla protesta. Noi donne dobbiamo sempre aspettare e trattenerci, perché non possiamo mai scegliere che ruolo avere. Siamo comunque figlie, e un giorno saremo madri, e perciò sempre responsabili degli uomini che vivono con noi e a loro ubbidienti. La nostra guerra la combattiamo dietro la finestra con il cuore in mano. Ma sarà sempre così?
Tra una settimana è Craciun, e sento che sarà diverso dagli anni passati. Il mondo sta cambiando, e sto cambiando anche io. La gente ha preso nelle mani le sorti del paese, e questo Craciun ce lo ricorderemo tutta la vita. Ma anche io prenderò nelle mie mani la mia vita e non rimarrò sempre a Timisoara. Basta mia sorella per riempire di copii la casa dei miei. Deşteaptă-te, Române mi urla nel cuore e sento che lo ascolterò.
Ti abbraccio, drag Vasile, e aspetto con ansia tue notizie,
noroc,
Brigi
giovedì 24 dicembre 2009
lunedì 21 dicembre 2009
sabato 5 dicembre 2009
Attesa...
Visto che il tema del prossimo incontro è l’attesa e visto che nella bocca ho ancora, nonostante siano passati dei mesi, un retrogusto di palinka e brenza, ho pensato di lasciare qui cosa ho imparato dell’attesa in Romania. C’è poco della Romania, quello l’ho già raccontato tante volte e altre ancora ne parlerò, c’è più del prima e del dopo, dell’attesa e dell’asetta.
Eh già, perché se c’è un nome che dice quei sentimenti di curiosità, desiderio, speranza, paura, agitazione, gioia non ancora completa ma più scoppiettante del suo assoluto, ce ne deve essere uno anche per tutti i sentimenti di quando torni: la voglia di tornare e quella di non tornare, il desiderio di raccontare e di condividere, la mancanza di chi non è con te che si fa sentire, la nostalgia, il ricordo, la soddisfazione di aver realizzato un progetto chissà quanto a lungo sperato, la paura e la voglia che qualcosa non sia più come prima. E tanto altro. Anche questo è un po’ attesa, anche se non è proprio attesa, perché viene dopo e non prima. E allora io la chiamo asetta.
Allora cambio, ecco:
Cosa ho imparato dell’attesa e dell’asetta in Romania
Attesa è sognare un viaggio da quando hai 11 anni e doverlo rimandare senza sapere fino a quando. È vedere gli amici partire e pensare a quando sarà toccherà a te.
Attesa è inaspettatamente rendersi conto che il sogno diventa concreto, e capire che questo germoglio coltivato e nutrito da tanto tempo ha scelto il momento peggiore per sbocciare. O forse ha scelto il migliore: perché se partire non costa nulla, se non comporta di lasciare qualcosa che ti è caro e che ti mancherà fino alle lacrime, allora è fuggire.
Attesa è aspettare il treno fino a Mestre e poi la coincidenza fino a Trieste, arrotolare palloncini durante il viaggio mentre due bimbe cinesi ripetono allegre e squillanti “tenchiu tenchiu!” e infine cercare pazientemente qualcuno che ti indichi la strada per Villa Ara.
Attesa è aspettarsi una casa calda e accogliente, qualcuno che ti prepari e ti incoraggi ad affrontare la nuova avventura e ritrovarsi invece in un posto anonimo e freddo, almeno per chi come me è abituato alla alcantariniche braccia spalancate di Assisi. Ma attesa è anche scoprire i nuovi compagni di viaggio, volti e sogni diversi e speciali e sentirsi pian piano parte di un nuovo arcobaleno.
Attesa è un limbo in cui rimaniamo parcheggiati qualche ora lunga e non programmata tra sacchi a pelo e zaini, io stanca ormai di racconti di Romania vista con le pupille degli altri e affamata invece di toccare, annusare, assaggiare questo Paese riempendomene l’animo e gli occhi, i miei finalmente.
Attesa è il pulmann che arriva e attesa è salirci sopra, rendendomi conto solo allora di essere partita senza conoscere nulla e nessuno, fidandomi di un volantino appeso davanti a una chiesa.
Attesa è partire allo sbaraglio allegro e inconsapevole. Attendersi tutto, appunto, senza righe di paragone, come appena sbarcata da un altro pianeta.
Attesa è la concretezza della scomodità di un posto che sarà la letto, divano, sedia, tavolo per tante tante ore di seguito.
Attesa è guardare il paesaggio con gli occhi curiosi ma non golosi, occhi che guardano meravigliati il Danubio immenso e lunghissimo (il Po in confronto è un ruscelletto!!!), le luci di Budapest, il verde dei Carpazi, ma che non si affezionano a nessuna delle meraviglie incontrate.
Attesa è leggere ROMANIA e pensare che siamo arrivati. E scriverlo veloce in sms indegno del suo compito a chi è a tanti chilometri da te, ma questa è già asetta.
Attesa è aspettare che la burocrazia locale ci dia i permessi per prestare servizio. Attesa è una lunga inutile fila per una presunta e formale visita medica.
Attesa sono i tempi rumeni, più lenti, più rassegnati, di chi ha sofferto guerre e dittatura e le braccia e le gambe ancora indolenzite dalle catene che ha portato fino a poco tempo prima.
E c’è un momento in cui l’attesa si ferma, perché il tempo si ferma e rimane sospeso.
E incontri quegli occhi: quelli di Marianna che tira testate contro il muro e ha la cirrosi, quelli di Simona autistica e assetata d’amore, quelli di Marioca che sorride e balla apparentemente da sola ma in realtà con il suo angelo custode, quelli di Regina legata mani e piedi alla sedia, quelli di Andrei che gioca con la sua saliva e ce la offre generoso, quelli di David portento di muscoli in un corpo che non vuole crescere e concentrato di furbizia a cui non è mai stato insegnato a parlare.
Cosa attendono questi figli di Cernobyl?
Cosa si attendono da noi? Non siamo qui per strapparli all’inferno e portarli in una famiglia che li ami e si prenda cura di loro, una casa calda e pulita, giocattoli e colori.
E già egoismo essere qui e credere di amare, e ripartire tra due settimane.
Eppure loro ci attendono. Marianna attende le carezze che riceve rannicchiata sotto la sua coperta che odora di urina, Simona qualcuno che le prenda le mani, Marioca un cavaliere a cui sorridere e a causa del quale far saltare un ballo al suo angelo, Regina le bolle di sapone da far scoppiare con il naso, Andrei qualcuno che batta le mani con lui e che non abbia paura dei suoi schizzi di saliva, David un amico con cui fare la lotta e mille risate.
Ci attendono, con lo sguardo alla finestra e gli occhi su di noi quando poi entriamo, e sul volto qualcosa di simile a un sorriso ma più misterioso e malinconico.
Attesa è svegliarsi, e pensare a loro con affetto e fatica. Asetta è addormentarsi con i loro volti nel cuore.
Asetta è aspettare di tornare a casa, raccontare, condividere. Asetta interrotta come un brusco risveglio che ti sorprende perché le cose lasciate non si ritrovano mai come prima. Attesa presa in giro da un’asetta che cambia le carte in tavola e ti dice che nella vita il bello di attendere è che non sempre ciò che attendi avverrà. E te lo dice con il volto di clown che si prende gioco di te. Eppure ha ragione.
Perché l’attesa è speranza, non è certezza. Attesa/asetta è tempo perso, e perciò vissuto, perché non usato al fine di fare, produrre qualcosa ma scoperto in ogni attimo, con l’emozione, la fibrillazione di stare aspettando qualcosa di bellissimo e incerto.
Incertamente stupendo e stupendamente incerto.
È in Romania che ho letto per la prima volta questa frase di don Tonino Bello: “Attendere è l’infinito del verbo amare”
E poiché amare è gratis, anche l’attesa lo è e dunque è bella e grande anche quando ciò che attendi non si realizza. È il bello della speranza.
Asetta poi è anche desiderio di tornare, ora più forte che mai.
La revedea, Sighet!!!
lunedì 30 novembre 2009
Ci salverà il soldato che non la vorrà...
http://www.youtube.com/watch?v=XyPDCkNNKao
Piccolissima traccia
Domenica ero in una cascina sperduta vagamente vicino a Chieri a recitare con i Sensi InVersi e dopo di noi si è esibita una compagnia in uno spettacolo di danza afro.
Eccola qui, la traccia che mi è rimasta nel cuore: la compagnia che ha danzato (mi pare si chiami Viaggi fuori dai Paraggi ma non sono sicura) è formata per la maggior parte da ragazzi affetti da sindrome di down, teneri, sorridenti e allegramente goffi e scoordinati nei movimenti. Fino a quando non c'è musica.
Ma poi la musica parte e il gruppo diventa un solo corpo che si muove all'unisono con un'armonia davvero rara. E poi passaggi, scene di caccia, di guerra, di corteggiamento, di festa. Non riesco a descrivere come l'iniziale goffaggine, pur rimanendo tale, diventava dolcezza di movimenti, unione, comunicazione di emozioni, sentimenti, forza. Sembrava che tutta la cascina vibrasse con la loro danza: ognuno di noi ha combattuto, è andato a caccia, ha avuto paura e si è innamorato insieme a loro! Ci hanno fatto vivere la storia che ci hanno raccontato, pur non usando una parola.
Erano pieni di energia e ce l'hanno trasmesso: ci credevano pienamente nella loro danza e si è sentito.
E' stato bello e sono loro grata. Tutto qui: volevo condividerlo con voi.
venerdì 27 novembre 2009
Viaggi ed incontri... che hanno lasciato Tracce!
La colonna sonora è la canzone "La strada" dei Modena City Ramblers...
lunedì 23 novembre 2009
Lettera da Sarajevo
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Sarajevo, 29 agosto 1999
Ho appena smesso di piangere…
...come sono stata male! Mai come in questo momento e così a fondo.
Qui a Sarajevo ci hanno fatto vedere un video di presentazione dell’Associazione Sprofondo per cui facciamo il campo questa settimana. C’erano parecchie scene della vita in città durante la guerra, durante i bombardamenti… gente che piangeva, che correva per sfuggire ai cecchini… scene che avrò visto un centinaio di volte in TV in Italia e già allora stavo male. Ma stasera l’ho visto con occhi diversi… gli occhi di chi ha degli amici che hanno passato tutto questo! Al posto delle facce degli uomini, delle donne e dei bambini sarajeviti, vedevo quelli di Refik, Kudus, Emina e di tutti quelli che ho conosciuto in questo mese. Mi è preso un nodo alla gola tremendo… avrei dovuto sentirlo già prima, ma è vero che fin quando non tocchi con mano, non riesci a capire… io l’ho appena SFIORATO e già mi fa così male! Cosa avranno provato loro? Mi sento così lontana… Gli altri, ancora estranei del tutto alla realtà bosniaca, ridevano distratti da un cagnolino mascotte dell’Associazione ed io mi chiedevo: “MA COME FANNO?”.
Ho rivisto gli occhi pieni di lacrime della mamma di Nino…
Ho rivisto gli occhi di Refik quando eravamo nella parte serba di Sarajevo e si parlava della presenza probabile di mine… erano SPAVENTATI!
Ho anche pensato a tutti quelli che a causa della guerra, d’un tratto (il tempo dello scoppio di una granata), si sono ritrovati nulla tenenti se non della loro tristezza e del loro orrore.
Forse sono tragica, drammatica… boh… spero di non sembrarti sciocca, ma è così che mi sento. Avevo già intenzione di scriverti questa settimana, ma speravo di scriverti quattro cazzate… quelle che sparo solitamente, ed invece… che disastro! Mi rifarò… ma adesso la mia preoccupazione è: DIMENTICHERO’?? Non voglio!
E’ vero, non è giusto essere sempre tristi, né nei confronti miei, né nei confronti delle vittime della guerra… ma non so…… smetto… non so più andare avanti, è difficile spiegare! Scusa lo sfogo, ma so che tu mi puoi capire, i ragazzi che sono qui sono forse ancora lontani o comunque non me la sento di parlargliene, non ora!
…a presto…